Il mondo oltre ogni immaginazione che tutti attendevano con impaziente trepidazione, dopo rimandi causa pandemia e anteprime a Venezia e Toronto, è finalmente giunto nelle nostre sale, inebriando l’aria di quella spezia che tutto l’universo brama. Denis Villeneuve presente all’appello: a distanza di quattro anni dal discutibile (ma indubbiamente affascinante) Blade Runner 2049, consegna alla storia del Cinema un nuovo, ma stavolta fedelissimo adattamento di uno dei pilastri della letteratura fantascientifica, Dune, mastodontica opera di Frank Herbert del 1965.

E quindi eccoci qui ad Arrakis, il prezioso pianeta patria dei Fremen sfruttato dall’imperatore per estrarne la Spezia, sostanza inestimabile che espande i confini della mente e mette in moto le galassie, ma che provoca anche profonde alterazioni della coscienza. La famiglia degli Atreides è stata incaricata di prendere il posto degli Harkonnen nella gestione dell’estrazione della spezia: il Duca Leto (Oscar Isaac) tuttavia vuole portare una ventata di pace nel pianeta e segnare un capitolo di svolta nella storia dei rapporti tra Fremen e impero. Nel frattempo, il figlio Paul (Timothée Chalamet) continua ad avere strani sogni, visioni di una ragazza in mezzo al deserto, presagi di una guerra in arrivo, di sventure e di morte. La madre di Paul, Lady Jessica (Rebecca Ferguson) è una Bene Gesserit, una strega che riconosce nel figlio dei poteri speciali, talmente speciali che qualcuno potrebbe pensare che sia l’eletto, il “Kwisatz Haderach“, l’essere divino in grado di cambiare le sorti dell’universo conosciuto. Cosa attende il giovane all’arrivo ad Arrakis? Cosa sono quelle visioni che si fanno sempre più frequenti? Quale sarà il destino del pianeta della spezia, e chi si cela dietro i malvagi piani degli Harkonnen?

Queste ed altre domande non troveranno una risposta definitiva in quella che a tutti gli effetti è la prima parte di un dittico cinematografico: Villeneuve sa che Dune è un’opera impossibile da portare al cinema se non serializzandola, perciò opta per una divisione della space opera in due parti, dedicandosi nella prima a impostare contesto, atmosfera e prospettive. Il risultato visivo è senza dubbio sbalorditivo: ci si ritrova immersi in un universo vivo, autentico e profondo, dalle scogliere di Caladan alle oscure dimore degli Harkonnen, passando ovviamente per la terra natale dei giganteschi vermi delle sabbie, condendo il tutto con una tecnologia fantascientifica tangibile e tridimensionale. In questo caleidoscopio di territori e mezzi viaggiano i nostri protagonisti, un corposo cast di altissimo livello che se in alcuni casi convince profondamente (Chalamet e Ferguson sono un ottimo duo madre-figlio), in altri purtroppo non riesce a colpire complice il pochissimo tempo a loro disposizione. Pochissimo, anche se si tratta di più di due due ore e mezza di film. Inutile negarlo: forse avrebbe avuto più senso trasformare Dune in una serie televisiva, format sempre sulla cresta dell’onda soprattutto considerato il pubblico più “nerd” (iper-virgolettato), per dare ampio respiro a numerosi elementi che qui appaiono, pur trattandosi di un dittico di film, piuttosto compressi. Il pericolo di questa compressione è quello di appiattire i protagonisti di questa storia, riducendoli a macchiette che hanno popolato e continuano a popolare il panorama del fantastico made in USA (l’eletto contro il malvagio, perfido senza ragione).

Dune sembra incespicare a tratti come il ritmo semi-tribale della colonna sonora (a cura di un Hans Zimmer decisamente poco ispirato), indugiando su alcune fasi della crescita introspettiva di Paul e soprassedendo su altri aspetti che in realtà sarebbero ugualmente – se non più – importanti, quasi contando automaticamente sulla buona fede dei fedelissimi lettori di Herbert, che riempiranno i buchi con la loro conoscenza mentre gli altri attenderanno sviluppi e spiegazioni future. E quindi tutte le allegorie al feudalesimo, alla cultura araba e allo sfruttamento del Medio Oriente rimangono accennate e abbandonate in fretta e furia, mentre altri eventi ben più esplosivi occupano lo schermo. Questa irregolarità nel ritmo diviene ancora più palese dopo aver assistito all’epilogo del lungometraggio, talmente anticlimatico che sembra più un’anticipazione da serie televisiva: nella prossima puntata sapremo tutto, ma in questa ci devono bastare solo piccoli, minuscoli indizi. Questo non significa che ci troviamo di fronte a un’opera monca o senza mordente: il potenziale di Dune viene espresso soprattutto nelle scene di conflitto, sia emotivo che politico, magistralmente dirette dall’occhio di Villeneuve, che conosce bene il linguaggio della fantascienza su pellicola e sa come elevarla a un piano di intrattenimento e di stile che per molti è difficile da raggiungere.

Tuttavia, un giudizio totale e definitivo è posticipato a data da destinarsi, quando arriverà nelle sale la seconda (e ultima? o ultima della prima saga?) parte di questa space opera e si sveleranno gli intrighi, gli obiettivi e i destini dei nostri protagonisti. D’altronde lo dice anche Zendaya, in un impeto di fuoriuscita dagli sche(r)mi: è solo l’inizio. Un mezzo inizio.