Ciò che troviamo alla base del nuovo film di Netflix, uscito da poco ed entrato in brevissimo tempo nella top 10 della piattaforma, non è niente di innovativo. Infatti, sono molti i film distopici che hanno come obiettivo principale quello di far riflettere su quanto la verticalità della società condizioni il benestare dell’individuo in tutti i suoi aspetti, una società organizzata per livelli dove ai piani più bassi spettano solo gli avanzi dei piani più alti. Questo è il soggetto de “Il Buco”: niente di troppo nuovo, come già detto. C’è da dire, però, che i due sceneggiatori, David Desola e Pedro Rivero, sembrano essere riusciti a guardare con occhi diversi questo concetto così familiare, tirando fuori una soluzione che riesce a tenere lo spettatore incollato allo schermo ma che, soprattutto, permette di empatizzare con i personaggi, reali e ben scritti.
La storia inizia nel momento in cui Goreng, interpretato da Iván Massagué, si sveglia in un lungo sconosciuto insieme a quello che si scoprirà essere il suo compagno di cella, Trimagasi. Si tratta di una prigione sviluppata in verticale con regole molto semplici: chiunque entri nella prigione, che sia per scelta o meno, può portare con sé un solo oggetto; ogni livello ha al suo centro un buco, attraversato, giorno per giorno, da una piattaforma imbandita con ogni tipo di prelibatezza per il sostentamento dei prigionieri; ciascun livello potrà nutrirsi solo degli avanzi dei livelli superiori; nessuno può tenere cibo nel proprio livello, pena il surriscaldamento o il congelamento della cella; allo scandire di ogni mese i due compagni di cella verranno spostati di livello, con la stessa probabilità di finire nei piani superiori che inferiori, quelli più vicini all’inferno, quelli che forse l’inferno lo sono proprio.
Regole semplici, tanto semplici da non riuscire a regolamentare il comportamento degli individui all’interno della prigione, e se vediamo i piani superiori godere del cibo, divorandolo con brutalità, correndoci sopra per prendere anche ciò che non gli è necessario, in delle inquadrature che si fa fatica a dimenticare, vediamo allo stesso modo i piani inferiori morire di fame e ricorrere a metodi come il cannibalismo per sopravvivere. Non sembra esserci nessun tipo di solidarietà all’interno di questo inferno, nessuna volontà di aiutare chi è sotto, mentre i motivi per agire con egoismo sembrano essere molti, a partire dalla fame provata nei mesi precedenti fino ad arrivare alla semplice legge della natura per cui è il più forte che domina il più debole. Un sistema che sembra impossibile da buttare giù, nonostante il cibo sembrerebbe poter bastare per tutti se ognuno prendesse solo ciò che gli è necessario. È proprio qui che il nostro protagonista sembra assumere un ruolo fondamentale, l’uomo buono, che con sé, a differenza del resto dei prigionieri di quello che scopriremo essere un esperimento sociale, ha portato un libro, Il “Don Chisciotte”, e non un’arma. È lui il messia? È lui l’unico in grado di cambiare il sistema dall’interno? Ma, più di tutto, è possibile cambiare le fondamenta di un sistema che oramai tutti hanno fatto proprio? Sono queste le domande che il film sembra voler far porre allo spettatore senza, però, avere la presunzione di rispondere.
Il lavoro fatto dal regista Galder Gaztelu-Urrutia riesce a restituire il giusto grado di claustrofobia, attraverso i molti primi piani, e di pericolo. Uno spettacolo crudo e violento che non ha paura di mostrare il peggio della natura umana, di coloro che tentano il tutto per tutto per sopravvivere, di quelli che non ricordano quali siano i valori morali su cui la nostra società è fondata perché ossessionati dalla fame. Un film ricco di allegorie e riferimenti, primo tra tutti il libro scelto dal protagonista, simbolo della sua battaglia contro il potere, battaglia che è già persa in partenza. Unica pecca del film, dovuta probabilmente anche al tipo di distribuzione, è la rappresentazione troppo didascalica, che non cerca di nascondere niente ma che, anzi, palesa tutti i messaggi attraverso riferimenti espliciti e facilmente comprensibili a tutti i tipi di spettatore, anche quei messaggi il cui riscontro sarebbe stato maggiore se lasciati come sottotesto. Un film sicuramente da non perdere, non tanto per la sua risoluzione finale, troppo semplicistica e scontata, ma per il viaggio stupefacente che riesce ad offrire.