La diva Judy Garland (Renée Zellweger) nel 1968 prende una difficile decisione: partire per Londra per una serie di concerti nel famoso locale Talk of the Town.
Partire non è facile per Judy, lei vorrebbe solo stare vicina ai suoi figli e lasciarsi alle spalle il mondo dello spettacolo, ma non ha una casa, non può permettersi di pagare stanze d’albergo e così decide di lasciare i bambini all’ex-marito e padre di costoro Sidney Luft (Rufus Sewell) al fine di guadagnare abbastanza in Inghilterra per poter comprare una casa e vivere felice con i figli. Purtroppo lo stesso star system americano che tanto l’ha glorificata, ormai non è più disposto a lavorare con lei, tra alcool, droga, ritardi e cambi d’agenda non è più considerata affidabile, oltreoceano invece ha possibilità e un pubblico che sogna da tanto vederla esibirsi.
Judy parte e porta con sé i suoi demoni nati ai tempi in cui girò Il Mago di Oz, dove la privazione del sonno e una dieta ferrea a base di (soli) farmaci l’ha imprigionata per sempre in dipendenze debilitanti.
A Londra un’attenta manager (Jessie Buckley), collaboratori solidali, fans devoti e un nuovo giovane amore (Mickey Deans interpretato da Finn Wittrock), cercheranno di supportare Judy nella sua ultima fatica artistica.
Prima di arrivare a noi grazie alla Festa del Cinema di Roma, Judy è stato presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival dove si è liberata una standing ovation adorante e senza precedenti per Renée Zellweger, eclissata e assorbita dal personaggio di Judy Garland tanto da scomparirvi e dare l’illusione di averla riportata in vita.
L’attrice Premio Oscar di Ritorno a Cold Mountain, si pensa abbia una statuetta assicurata ai prossimi Academy Awards (dopo esser stata premiata agli Hollywood Film Awards), una vittoria ormai data per scontata visto l’approccio di estrema sensibilità e amore con cui ha vestito i panni della diva dell’originale A Star Is Born (1954).
La Zellweger non solo commuove ma riesce a dare l’idea della complessità della persona di Judy, imperfetta, umorale, in conflitto con se stessa ma dotata anche di grande simpatia e carisma. Tra le memorabili canzoni By Myself, Come Rain or Come Shine, The Man That Got Away fino a una versione straziante di Somewhere Over the Rainbow, Renée Zellweger non usa il metodo Rami Malek ma incanta con la sua voce in performance sentite, energiche e di massimo rispetto. Tra il canto, il ballo e flashback drammatici, Rupert Goold (True Story) crea un ritratto tripartito di una Judy donna, madre e artista, tre nature che provano a convivere insieme ma che finiscono più con lo scontrarsi e creare – crepa dopo crepa – la fragilità toccante su cui vengono puntati i riflettori.
La Judy Garland del film non corrisponde realmente al ricordo che ha di lei Lorna Luft (seconda figlia della Garland), che ha sempre ribadito come sua madre odiasse essere vista come una figura drammatica, perché ogni essere umano ha i suoi drammi e lei aveva molto di cui esser grata alla vita. Lorna la ricorda come una figura forte e gioviale, ironica anche in situazioni infelici, motivo per cui potrebbe spiegarsi il vortice di pettegolezzi in cui è stata risucchiata Liza Minnelli. Da prima dell’uscita del film varie fake news sono circolate riguardo presunte ostilità tra Zellweger e Minnelli. Pubblicità (gradita) per il film: fonti ufficiali chiariscono semplicemente che non c’è mai stato contatto tra le due donne e che la star di Cabaret semplicemente non voleva né approvare né criticare il lavoro di Goold. Decisione comprensibile per un’opera tanto intima ma lontana dall’essere un biopic realistico, in quanto il soggetto su cui si basa la sceneggiatura (Tom Edge) è il musical teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter.
Il Musical Drama di Broadway, basandosi sugli eventi reali, omaggia Judy a suo modo, romanzando quei mesi e facendo emergere toni melodrammatici dell’artista che si scontrerebbero con la natura evidenziata dalle persone a lei vicine.
La domanda è: cerchiamo forse la verità dal cinema? No, perché la pellicola non è un documentario, ma non è suo intento neanche raccontare il falso. Judy è un omaggio denso di affetto, uno sguardo personale ed empatico a quella che è stata trasformata in bambola e sfruttata da un sistema inumano, ergo il film è anche una denuncia oltre a un messaggio di solidarietà. Tale affetto possiamo trovarlo tra i colori rosa, rosso e arancio onnipresenti nelle inquadrature, quanto nell’abbondanza di fiori in varie scene, su tavoli o come motivi del vestiario. Queste scelte scenografiche e costumistiche (Stella Fox e Jany Temime) non sono messe solo per allietare lo sguardo o rendere al meglio l’ottima fotografia di Ole Bratt Birkeland (American Animals). Fiori e colori caldi sembrano abbracciare la solitudine dell’artista, sembrano sprazzi di bellezza che nascevano dal suo talento, dalla sua personalità vivace e sentimentale, e – forse – sono anche un personalissimo tributo di Rupert Goold.
Semplificare Judy in un melò da lacrime facili è ingiusto, sarebbe come affermare che dopo la morte il cinema sfrutta la grande diva usandola, ancora, per scopi lucrativi. La qualità artistica del film è superba e mirata alla perfetta resa della grandezza di una donna e artista che va ricordata. La parte dolorosa è un modo per riflettere ma anche per mostrare – con dignità – che non deve esserci vergogna nelle proprie fragilità, che hanno radici da ingiustizie, da sistemi malati, che vanno cambiati.
Alla luce di ciò, l’opera risulta una rassicurazione per la Garland del passato: Judy non è mai stata dimenticata e mai lo sarà.