Il primo film di Chloé Zhao, Songs my brothers taught me, è stato motivo d’incontro tra la regista e Brady Jandreau, suo padre Tim e la sorella Lilly. La famiglia di etnia Lakota-Sioux, incontrata nella riserva Pine Ridge (South Dakota), è stata per Zhao motivo d’ispirazione nel loro rapporto con il contemporaneo West, nella realtà agricola dei cowboys e nel legame tra essi e i cavalli.

Presentato nel 2017 al Cannes Film Festival, The Rider non è un western – come è stato erroneamente etichettato da molti – e non è fiction dalle intenzioni documentaristiche: The Rider nasce come un abito creato e cucito sulla persona di Brady Jandreau, sul suo mestiere, sulle sue conoscenze, dopo una lunga osservazione di Zhao.
La comunità Lakota di attori non professionisti che dà corpo a The Rider basa la sua vita su un rapporto di convivenza e co-dipendenza con i cavalli, un legame così stretto sul quale l’obiettivo indaga con primissimi piani e dettagli di cavallo e uomo, che si intersecano, si guardano, si studiano per poi lasciar spazio alle sconfinate lande rurali, paesaggi che diventano immagini da togliere il fiato, veri e propri elementi tematici a cui sono affidati gli stati d’animo del protagonista e a cui la natura restituisce un’emozione complessa e indefinita.

Chloé Zhao non confeziona un film semplicemente delizioso per l’occhio e di pura contemplazione, e le immagini non sono fini a se stesse perché The Rider non è semplicemente la storia di un cowboy o un film manieristico; a colpire la critica e vincere i Gotham Independent Film Award 2018 e quest’anno i National Society of Film Critics è stato altro, quel qualcos’altro che è ibrido tra autenticità e sperimentazione.

The Rider è un altro Brady – Brady Blackburn – la cui natura è quella di essere un cowboy, principalmente un addestratore di cavalli con una certa fama nel mondo dei rodeo, un drammatico incidente però gli riporta un danno cerebrale che gli impedisce di cavalcare ancora.
Come lo stesso Brady riflette: un cavallo zoppo, non può più correre e giocare, non ha senso di esistere e per questo – per pietà – va abbattuto. Un cowboy se non può più cavalcare perde il senso della sua esistenza, ma è un uomo e non può essere abbattuto come un cavallo. Su questo conflitto Zhao indaga, creando una pellicola poetica, delicata e intima. Il dramma a cui ci troviamo di fronte non vuole soffermarsi sulla sofferenza di una disabilità e sul convivere con essa, The Rider racconta un dramma di crisi esistenziale. Brady non riesce a concepire se stesso come altro se non come un cowboy, non è un mestiere per lui, non è uno stile di vita, è qualcosa iscritto nel sangue, una vocazione su cui fonda la sua esistenza a cui non riesce trovare un compromesso. Brady è vivo a differenza del suo amico paraplegico Lane Scott, eppure ha cessato di vivere, egli esiste soltanto e non c’è una risposta o una consolazione.

Brady Jandreau pur non essendo un attore professionista regala una performance all’inizio un po’ ingessata, ma che andando avanti con il minutaggio si rivela intensamente autentica, mostrando un dolore silenzioso, una depressione che nessuno chiama con il suo nome, senza che si cada mai in toni eccessivamente drammatici. Chloé Zhao non esaspera nulla, non c’è mai un personaggio che alza la voce, non c’è mai un pianto o qualcosa che alzi i toni, neanche una colonna sonora che sottolinei gli stati d’animo, solo suoni e rumori della realtà, come realistica è l’empatia di Jandreau nei confronti di quella sorta di alter-ego che è Blackburn.
Se le performance sono davvero toccanti – inclusa quella della sorellina autistica Lilly – il soggetto, pur interessante, non gode di una forte solidità. The Rider ha dei punti fermi, dei personaggi interessanti, ma non ci sono risposte, non c’è una struttura narrativa organizzata e definita; il plot sembra un’energia attua a stimolare la riflessione e l’incontro con se stessi, tante sono le domande che possono sorgere, ma si disperdono nei paesaggi, la cui magnifica vastità sembra la subliminale e vaga risposta ad ogni interrogativo esistenziale.

Chloé Zhao si rivela una regista e autrice sui generis, attenta e sensibile, ma non interessata a inquadrare e segnare confini nella sua opera, caratteristica che può essere virtù quanto debolezza, dipende dai punti di vista. Sicuramente c’è da ammirare l’originalità di questo film e la base su cui è stato costruito: Zhao offre infatti uno sguardo diverso del West, un lato fragile e poetico, quasi antitesi di tutto ciò che nella storia del cinema è stata la figura mitica del cowboy.