Brie Larson (Room, Captain Marvel), dopo un Oscar come migliore attrice, esordisce dietro la cinepresa per raccontare una storia che fa emergere appieno l’estro creativo della star californiana.

Solo pronunciare il titolo, Unicorn Store, accende la scintilla della fantasia e fa pensare a un film pieno di arcobaleni, colori, glitter e alla famosa creatura mitologica protagonista di tante fiabe e favole: l’unicorno. In effetti il più grande sogno di Kit, la protagonista, è sempre stato quello di possedere la leggendaria creatura e dopo molti anni è rimasta così tanto fedele a sé stessa che l’unicorno è ricorrente persino nelle sue opere d’arte.

Proprio a causa del suo stile troppo colorato, giudicato infantile dai suoi professori, viene espulsa dall’Accademia e, persa ogni speranza di continuare la carriera artistica, abbandona l’arte per intraprendere la vita ordinaria dell’impiegata presso un’azienda conosciuta in tv. Riposti i materiali da disegno e i colori in un “cassetto”, Kit si arrende al desiderio dei suoi genitori che la vorrebbero meno eccentrica e più responsabile, ma la sua vita è destinata a cambiare grazie ad un’occasione unica offertale da un emporio chiamato The Store.

L’Emporio le permetterà di realizzare il suo più grande sogno nonché ciò di cui ha più bisogno in quel momento: adottare un unicorno. L’animale richiederà cure, attenzioni, un ambiente sereno in cui vivere e la ragazza prima di poter concludere l’adozione dovrà dimostrare di possedere tutti i requisiti per rendere il suo unicorno felice. Cosi, mentre la giovane artista intraprende un percorso di maturazione personale, lo spettatore non può esimersi dal domandarsi se The Store sia reale o meno, così come il suo gestore (Samuel L. Jackson) e la presenza stessa degli unicorni.

A loro è legata una delle peculiarità del film poiché il dubbio sulla loro esistenza in questo mondo consente alla pellicola di non rientrare subito in un genere cinematografico unico: i più scettici considereranno il film solo come una commedia e giungeranno alla conclusione che prima o poi Kit dovrà affrontare la realtà, mentre i più romantici esiteranno e propenderanno per un’opera fantasy. Un genere non esclude l’altro e ben presto il dilemma sulle mitiche creature è accompagnato da una maggiore consapevolezza sul loro stesso significato. Cosa rappresenta davvero l’unicorno per Kit?

Nel corso della storia si ha la percezione che per lei sia “un’ancora di salvezza”, l’unica creatura in grado di renderla felice e per la quale è disposta ad affrontare la società e a fare carriera per poter acquisire stabilità economica e abbandonare l’impiego di stagista. Così pian piano acquisterà maggiore fiducia in sé stessa, fino a pensare di poter innovare una campagna pubblicitaria di aspirapolveri grazie al suo estro e alla sua creatività. Ormai il successo sembra assicurato eppure le rigide regole di mercato prevalgono sulla originalità e l’innovazione,  spegnendo il suo entusiasmo, ma rinvigorendo il legame di amicizia con due colleghi, Sabrina (Martha Maclsaac) e Matt (Chris Witaske).

Probabilmente coloro che si aspettano una rivalsa sociale da parte della protagonista, con conseguente capovolgimento dei luoghi comuni dell’industria commerciale, rimarranno delusi dalla mancata affermazione lavorativa di Kit. Eppure ciò che riconquista è molto più prezioso: l’affetto e il sostegno dei genitori, degli amici e l’amore di Virgil (Mamoudou Athie), dipendente di un ferramenta. Se questo film fosse un vettore avrebbe come verso la realizzazione del sogno di possedere un unicorno, ma come direzione l’amore sincero e incondizionato. La bellezza di Unicorn Store risiede proprio nella ricerca di quell’affetto che ci permette di affrontare le avversità, di rialzarci in caso di fallimento e che è il colore più caldo della nostra vita. Kit scoprirà cosa significa davvero amare ed essere amati, ma soprattutto instaurerà un dialogo con le persone a lei care per poter ricominciare, non più da sola, ma insieme ai suoi affetti, senza dover rinnegare la sua parte creativa.