Ci sono voluti diversi anni per riuscire a vedere concretizzarsi un film dedicato ai Queen (o meglio, su Freddie Mercury), tra riscritture, cambi di regia ed incertezze sul cast. Quando si tratta di raccontare di vite così complesse, di personalità così fortemente impresse nell’immaginario collettivo, i rischi di prendere troppo le parti, invadere aspetti privati o violare una certa immagine conservata in memoria sono sempre dietro l’angolo.

Nonostante le difficoltà affrontate in produzione, Bohemian Rhapsody si presenta come un film solido, puntuale nel tracciare una biografia, non sempre fedelissima, che si intreccia con la storia di una band che è entrata prepotentemente di diritto nella storia della musica. L’accortezza a mantenere un certo riguardo nel raccontare la storia di Freddie Mercury (all’anagrafe Farrokh Bulsara, qui interpretato da Rami Malek), è dovuta anche alla supervisione attiva al progetto da parte dei membri della band, ed in particolare del chitarrista Brian May. La storia del film si sviluppa infatti a partire da quella che ci viene raccontata, in modo semplificato ma coerente con la narrazione del film, come la nascita del gruppo; fino alla partecipazione nel 1985 al concerto di beneficenza Live Aid per la fame in Etiopia. Si sceglie così di non approfondire gli ultimi, difficili anni della vita di Mercury, evitando quella retorica cinematografica che spesso rischia di caratterizzare il racconto di una malattia, non censurandola del tutto, ma rivelandoci quanto basta per presentare un Freddie Mercury più intimo e sofferente, in contrasto con l’esuberanza delle sue apparizioni pubbliche.

Il cast è notevole e precisissimo: tutti consapevoli di rappresentare personaggi che hanno vissuto al cospetto di una leggenda, vi si approcciano con la dovuta riverenza. Rami Malek, protagonista della serie Mr. Robot, ancora di più si cala nel personaggio con rispetto e bravura. Pur non somigliandogli troppo nel viso, soprattutto nella versione più giovane di Freddie (ma alcuni giochi di luci e ombre nella seconda parte del film regalano effetti impressionanti), Rami Malek riesce a cogliere atteggiamenti e sfumature nella postura che rivelano un lavoro attoriale di trasformismo sorprendente.

Alla regia ritroviamo Bryan Singer, in realtà sostituto a poche settimane dalla fine delle riprese da Dexter Fletcher, per motivi non propriamente chiari, ma ufficialmente legati alle sue assenze prolungate dal set. Singer risulta ad ogni modo l’unico regista accreditato, ed è evidente la sua sensibilità nel raccontare un gruppo di emarginati – i Queen ci vengono presentati come una band, anzi una “famiglia”, non convenzionale, che vuole approcciare minoranze meno inserite nella società – così come aveva già fatto in passato nei primi due X-Men. L’unico difetto che si può attribuire alla regia è la forte linearità con cui viene trattata la biografia della band. Considerata l’accezione spesso sperimentale dei Queen, nonché la forte componente operistica e teatrale di molti dei loro brani, era plausibile aspettarsi anche una regia più coraggiosa e suggestiva. Non si tratta però di una vera e propria critica: le scene che raccontano la genesi di alcune delle canzoni più famose ed iconiche sono genialmente costruite; ma soprattutto, la regia non realizza una banale chiusura circolare del film in quanto il finale è significativo del vero intento di questo Bohemian Rhapsody: quello che interessa a Singer, più che la biografia, è la valorizzazione degli splendidi brani che Mercury e i Queen ci hanno consegnato. Quella che Singer vuole raccontare è la legacy di Freddie Mercury: l’eredità di una leggenda.