Non ci sono dubbi riguardo le capacità di Ridley Scott di creare nuovi mondi o di riportare in vita quelli passati, anche quando i suoi film non riescono a colpire il segno c’è sempre qualcosa che riesce ad attirare l’interesse dello spettatore e questo vale anche per il suo ultimo film: “The Last Duel”. Presentato fuori concorso alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, The Last Duel appare come un opera mastodontica e allo stesso tempo come un’occasione persa.
Gli elementi di forza del film sono diversi: si parte dal cast – composto da Ben Affleck, Matt Damon, Adam Driver e la magnifica Jodie Comer, che da sola fa più degli altri tre messi insieme – fino ad arrivare alla sceneggiatura che vede il ritorno del duo Affleck-Damon dopo Will Hunting – Genio Ribelle, con l’aggiunta della nominata all’Oscar per la sceneggiatura di Copia Originale Nicole Holofcener. Da aggiungere alle note positive c’è poi la costruzione di un Medioevo che si rifà ai setting canonizzati nei prodotti televisivi e cinematografici con l’aggiunta di elementi totalmente distanti dall’epoca, vedi il Mullet anni ’80 di Matt Damon o il biondo ossigenato di Ben Affleck, elementi che tirano lo spettatore fuori dalla narrazione ma che allo stesso tempo hanno un che di grottesco, non troppo invadente, che riesce a divertire lo spettatore.

Il film, la cui trama è tratta dal libro L’ultimo duello. La storia vera di un crimine, uno scandalo e una prova per combattimento nella Francia medievale di Eric Jager, si apre con un maestoso montaggio alternato che ci mostra la vestizione dei tre personaggi principali della storia: i due cavalieri Jean De Carrouges (Damon) e Jaques Le Gris (Driver) e Lady Marguerite (Comer). Tre personaggi che, seppur in modalità diverse, stanno per affrontare un duello che deciderà chi vivrà e chi perirà. Lo spettatore viene poi catapultato nel pieno di una battaglia nella Francia del XIV secolo dove Jean De Carrouges, cavaliere preoccupato unicamente del proprio onore e in cerca di eredi, è intento a combattere a fianco di Jaques Le Gris contro le armate inglesi. Il film non tiene a chiarire il rapporto tra i due, mostrando invece come l’aspirazione e la conoscenza di Jaques lo portino a superare il suo rivale su ogni fronte, in primis agli occhi del principe Pierre (Affleck). Parallelamente vediamo svilupparsi la trama relativa a Lady Marguerite, nobildonna la cui dote spinge Jean De Carrouges a prenderla in sposa e Jaques Le Gris ad “innamorarsi” perdutamente di lei, fino a decidere di entrare nella sua abitazione quando la donna è da sola per aggredirla. Ma è propriamente un’aggressione come accusa la donna, o si tratta di adulterio come invece sostiene Le Gris?

Il film non lascia molti dubbi a riguardo, a differenza della storia da cui è tratto, ed è proprio questo il motivo principale per cui si può vedere il film come una occasione persa. Invece di provare a dire qualcosa di nuovo su una questione così presente nei prodotti audiovisivi di oggi, si crea un’opera a tema basata su una struttura narrativa che riporta i tre punti di vista dei protagonisti. Vediamo così tre versioni della stessa storia, idea interessante anche se non così nuova o così riuscita. Infatti, anche se Ridley Scott arricchisce ogni versione con piccole differenze nella regia per restituire la dimensione psicologica del personaggio, si finisce per avere un film che vive di ripetizioni allungando il tutto senza un motivo valido. La lunghezza poco necessaria del film però è il problema minore, niente su cui non si possa passare sopra per continuare a godere della storia di personaggi così interessanti. Il problema arriva quando si passa all’ultima della tre versioni della storia, quella di Lady Marguerite. La sua narrazione dell’accaduto è senza dubbio la più interessante, in quanto ci mostra una donna che ha il coraggio di dire la sua e di uscire dal coro, immortalando allo stesso tempo la condizione della donna dell’epoca. Questa ultima versione però viene presentata dallo stesso film come la verità, frase che viene sottolineata e messa in grassetto su fondo nero all’inizio del capitolo finale. È proprio questa scritta che porta a rivalutare il tutto e a chiedersi se fosse veramente necessario. Una semplice scritta che nel suo essere tale fa sì che lo spettatore non debba mettere nulla di proprio nell’interpretazione del film. È già tutto lì, non devi prendere nessuna posizione, il film stesso ti guida e ti indica quale prendere. Questa decisione mostra come il regista non abbia voluto prendersi la responsabilità del relativismo, optando invece per la strada più semplice senza apportare nulla di nuovo al tema.

Nonostante questo, il film riesce comunque a dire qualcosa, soprattutto se si analizzano le sfumature di alcune delle battute dei due cavalieri, pungenti e in grado di far riflettere a lungo. Il tutto inserito in un film visivamente maestoso, in particolare nelle sequenze del duello, dove ritroviamo il grande cinema di Ridley Scott.