Viene un po’ il sospetto che sia tutta una mastodontica presa in giro. D’altronde il cinema di Leos Carax si è sempre posto in bilico tra squisitezza artistica e pacchiana sregolatezza, con risultati notevoli ma che inevitabilmente hanno diviso pubblico e critica. Di sicuro c’è che stavolta si capisce subito perché gli sia stato conferito il Premio al Miglior Regista all’ultimo Festival di Cannes. A distanza di ben nove anni da Holy Motors, con Annette il cineasta francese si imbarca per la prima volta in un viaggio totalmente in lingua inglese, accompagnato da tre attori di talento e un vero e proprio squadrone di cantanti e coreografi capitanati dagli Sparks (i fratelli Ron e Russell Mael), per un musical a metà strada tra cinema e teatro, l’uno avvolto nell’altro – o meglio, tra cinema e cinema che sa di esserlo, e che quindi parla subito allo spettatore ordinandogli di rimanere in apnea per tutte le due ore e venti di Annette.
Ma chi è Annette? È la figlia di Henry McHenry (Adam Driver, che già in Storia di un Matrimonio aveva sfoggiato le sue doti canore), anti-comico che non fa ridere e che ama “uccidere” il proprio pubblico, e Ann Desfranoux (Marion Cotillard) soprano celestiale che ama morire sul palco sotto applausi scroscianti. I due si amano, si vogliono, si uniscono, riaffermano più e più volte il proprio amore tra musica e sesso. Da questa unione nasce Annette, un essere speciale che assomiglia più a una marionetta che a un essere umano. È a questo punto che, complici anche il calo di popolarità di McHenry e l’entrata in scena del “Conduttore” (Simon Helberg), verranno alla luce tutte le ombre di una famiglia destinata ad ammirare l’abisso.
Eppure, sebbene le premesse fossero affascinanti (trama accattivante, attori straordinari, Carax e Sparks a Cannes), non è tutto oro quello che luccica. L’aspetto musicale di Annette è forse l’elemento meno riuscito: tutti i brani sono lenti, ripetitivi ed estenuanti, e non rendono giustizia all’immenso lavoro che c’è stato dietro (lavoro che si è protratto sin dal 2016); i testi sono blandi e dimenticabili, limitandosi a raccontare passo dopo passo quello che succede su schermo; le coreografie sono spente e quasi morenti. Questo rende la visione della prima metà di Annette un’impresa decisamente non facile. Ma il palco grida vendetta e si risveglia quando Annette mostra le sue doti e rimescola le carte in tavola per raccontare una storia in equilibrio tra sogno e realtà, dove uccidere ed essere uccisi non significa solo finire una vita, ma controllarne un’altra fino al midollo (come quando si infila la mano dentro le viscere di un burattino).
Ed è qui che questo anti-musical si redime dei suoi peccati e si trasforma in un particolarissimo esperimento meta(anti?)-cinematografico – non del tutto riuscito, sia chiaro, ma comunque ammirevole. Lo specchio in cui Ann si ammira è lo specchio di un mondo che esiste e non esiste, un mondo in cui gli attori sono “performers” della vita reale e dove il pubblico entra ed esce in una matrioska di musica e silenzio. La scala di Penrose in formato musicale che appare sullo schermo è da una parte un esercizio di stile con cui Carax porta a casa un risultato soddisfacente (non senza qualche trovata eccentrica e più o meno discutibile, come è sempre stato e sempre sarà), mentre dall’altra è un’accusa allo star system che sfrutta e consuma l’anima delle persone, fino a gettarle in un abisso senza possibilità di ritorno. Un’accusa sincera e a metà strada tra la favola e l’orrore, ma forse dall’esito un po’ debole. Finita l’apnea ci si ritrova decisamente spaesati e non del tutto convinti, parte di un lungo serpentone umano che uscito dalla sala marcia verso il buio totale.