C’è un filo che collega l’Oklahoma e la Francia, un filo sul quale Bill Baker (Matt Damon) corre avanti e indietro periodicamente per andare a trovare la figlia Allison (Abigail Breslin), imprigionata da cinque anni nel carcere femminile della Marsiglia per un crimine efferato (l’omicidio della fidanzata Lina) che afferma di non aver commesso. La madre della giovane è morta tempo addietro: gli unici legami che le rimangono sono il padre, alla costante ricerca di un impiego negli Stati Uniti (è un operaio di piattaforme pietrolifere), e la nonna Sharon (Deanna Dunagan). I rapporti sono freddi, ma sono l’unica possibile ancora di salvezza grazie a una lettera che la ragazza vuole far leggere al suo avvocato, in cui è scritto che a uccidere Lina in realtà sia stato un certo Akim, conosciuto il giorno della tragedia. Tuttavia, l’avvocato non ne vuole sapere di impelagarsi in altre indagini infruttuose, così sarà Bill a occuparsene di persona, nascondendo la verità ad Allison e immergendosi in una ricerca che potrebbe mettere a dura prova le sue convinzioni.
Matt Damon, stavolta, centra in pieno il bersaglio. Nell’interpretare il “fuckup” Bill, padre non esemplare distrutto da dubbi e rimpianti, ma che si trova davanti a una seconda chance nel (ri)costruire una famiglia, trasforma La Ragazza di Stillwater, ovvero quello che sulla carta sembrava un innocuo e indolore thriller di spionaggio, in un intenso dramma familiare dai risvolti inaspettati. Il nuovo lungometraggio di Tom McCarthy non ha paura di compiere una coraggiosa metamorfosi dalle numerose conseguenze: da un lato mostra una tridimensionalità eccezionale dei personaggi rappresentati – dalla meravigliosa Virginie (Camille Cottin), madre forte e mai banale che assisterà Bill nella sua personale odissea francese, alla figlia di lei, la piccola Maya (Lilou Siauvaud) con cui il protagonista costruirà un legame di autentico e puro affetto paterno – mentre dall’altro pone interrogativi profondi sulla società in cui viviamo, sul razzismo diffuso, sulle gravissime disparità sociali ed economiche che troviamo sia in Francia che negli Stati Uniti, sulle colpe e le ombre che nascono da esse, sui pregiudizi che infettano e macchiano per sempre le vite che girano attorno a noi. McCarthy riesce (più in alcune fasi che in altre, ma per fortuna senza scadere nell’insulso) a dare il giusto peso a questi temi, incorniciandoli in una storia che devia (fortunatamente) dal tipico racconto di redenzione made in USA per esplorare anime in pena in una Marsiglia fatta di luci e ombre.
Tuttavia, il tema più importante che fa da sfondo a tutta la vicenda (lontanamente ispirata al famoso caso di Amanda Knox e del delitto di Perugia del 2007) ruota attorno alla bugia, sia come mezzo di difesa che come strumento di indagine, ma soprattutto alle ripercussioni inevitabili e brutali che ricadono sugli individui che le subiscono. E forse è proprio questo il pregio più grande de La Ragazza di Stillwater: non è un’opera che si può chiudere e riporre in un cassetto, come una missiva già letta. Anzi, è un potentissimo manifesto dei macigni invisibili che ognuno porta dentro di sé. Proprio per questo, il fatto che questo film sia lontanamente ispirato all’omicidio di Meredith Kercher acquista un altro significato, ancora più grave e al tempo stesso affascinante. Dall’americano medio che vota Trump all’attrice teatrale, passando per la ragazza incarcerata e per i media che scrivono… ma noi, di queste vite, di questi dolori, di queste ombre… cosa ne possiamo sapere?