La casa è il luogo fisico che l’essere umano identifica come il proprio rifugio fin dall’infanzia, un posto sicuro dove potersi lasciar andare. Per dimostrare ciò basta cercare i vecchi disegni che facevamo da bambini dove, spesso, se non sempre, compare la nostra dimora. Ma la casa non è solo questo: è anche il luogo dove ogni individuo abbassa le proprie barriere e smette di mettere in scena una parte per abbandonarsi a sé stesso, in tutte le sue sfaccettature. È proprio su quest’ultimo concetto che il nuovo thriller psicologico di Netflix va a poggiarsi per creare un certo tipo di suspense che, con qualche difficoltà, arriva fino allo spettatore.

La trama vede Javier (Javier Gutiérrez Álvarez), pubblicitario vecchia scuola ma rinomato nel campo, alle prese con la ricerca di un nuovo impiego. Non ci è dato sapere se sia stato lui a lasciare il precedente, sperando di migliorare la propria condizione, o se sia stato licenziato. Tutto quello che sappiamo, inizialmente, è che l’uomo sta cercando un modo per continuare a prendersi cura della propria famiglia, abituata ad un certo tenore di vita. Se da prima Javier si mostra interessato al bene della moglie Marga, che non vuole far lavorare, e del figlio Dani, ci rendiamo ben presto conto del suo stesso attaccamento a quello stile di vita diventato ormai ciò che lo caratterizza, esattamente come la sua casa di lusso. Sarà proprio la perdita di quest’ultima a far uscire la parte peggiore del protagonista. La sua vita non è più all’altezza di quello che lui aveva immaginato: il figlio viene bullizzato per il suo peso; la moglie è costretta ad andare a lavorare, senza, però, mai lamentarsi di questo, come invece fa lui non appena nota l’odore di candeggina con cui Marga ha pulito i bagni del negozio dove lavora; l’uomo, invece, continua a cercare un lavoro che non sembra arrivare. La sofferenza e la sensazione di inadeguatezza spingono Javier a tornare al vecchio appartamento e a guardare da fuori, attraverso la finestra che lui tanto amava, quella con la panoramica mozzafiato che lo aveva spinto a scegliere quella casa, ai nuovi inquilini e a quell’idea di sé stesso che ora sembra essere così lontana. La visione della nuova famiglia e di quanto questa sia perfetta, portano Javier a perdere la testa e a decidere di avvicinarsi a loro con scopi tutt’altro che nobili. Il suo interesse si evolverà presto in un’ossessione che lo porterà a perseguitare la famiglia felice, ma non solo.

Il protagonista è lo stereotipo del personaggio da thriller: cupo, con una doppia personalità (sottolineata per l’intera durata del film dal suo riflettersi in tutte le superfici riflettenti mai inventate, a partire dalle finestre fino agli specchi), un sociopatico che finge con tutte le persone con cui entra in contatto, ma che finge nel modo giusto dando la sensazione di averlo sempre fatto. La tensione in Dov’è la Tua Casa, spenta in parte dalla lentezza del film, è dovuta soprattutto alle scelte di regia di David e Àlex Pastor che sembrano, però, essere state prese direttamente dalla voce “Thriller psicologico” di un qualsiasi manuale cinematografico: c’è, infatti, un uso spasmodico di inquadrature fisse e di carrelli in avanti e indietro per creare suspense, anche quando si è nel vivo dell’azione, producendo così noia più che interesse nello spettatore. Il loro lavoro però non è da buttare: alcune scelte, seppur non troppo innovative, catturano lo sguardo e risultano interessanti. La cosa che probabilmente disturba maggiormente nella visione è la scelta di messa a fuoco del solo personaggio protagonista della scena in questione, andando a sfocare (letteralmente e figurativamente) tutto il resto.

Questa produzione spagnola, purtroppo, non sembra riuscire ad intrattenere appieno in molte sequenze, il che è un vero peccato per Netflix, che nonostante si avvicini sempre al risultato non riesce spesso a portarlo a casa, ma anzi si ritrova avvolte a creare prodotti con uno stampino.