Alcune serie tv restano così impresse nei cuori e nei ricordi degli spettatori che quando giungono al loro epilogo la parola fine risuona amara e quasi inaccettabile. Una volta finiti di scorrere i titoli di coda spesso ci si domanda: resta ancora qualcosa da raccontare?

In un periodo in cui si girano numerosi sequel e reboot la risposta pare affermativa, e sempre più serie tv e film riprendono la parola, continuando o riniziando da quel fatale “The end”. Downton Abbey è una di queste, e dopo quattro anni di assenza ritorna in grande stile con la regia di Michael Engler (The Chaperone). La vena creativa del suo creatore, Julian Fellowes, (Premio Oscar nel 2002 come miglior sceneggiatura originale per Gosford Park) pare non esaurirsi e ci riporta nella contea della famiglia Crowley, una nobile famiglia inglese, impegnata nell’organizzazione di un importante evento: il re e la regina, durante il loro viaggio nello Yorkshire, visiteranno Downton Abbey, fermandosi per un giorno. Questo grande privilegio richiede diversi preparativi, ma l’ordine di sostituire momentaneamente il personale di servizio del castello con quello reale genera un conflitto con in gioco l’onore di Downton.

Per quanto la visita reale sia il fulcro narrativo della pellicola, non traccia che un disegno in bianco e nero, colorato solo con l’affiorare di diverse storie secondarie che vedranno i loro protagonisti maturare e confrontarsi con se stessi e gli altri. Il film è ambientato infatti nel 1927, un periodo in cui soffiava un vento di cambiamento che non poteva non giungere anche a Downton. Non si tratta di semplice progresso tecnologico, con le linee delle ruote delle macchine che segnano le strade più degli zoccoli dei cavalli, ma di una trasformazione della società, dai ceti più alti fino a quelli più bassi. Così Thomas Barrow (Robert James-Collier), maggiordomo di Downton, stringe per la prima volta amicizia con un uomo che ricambia il suo amore, in una Inghilterra in cui era in vigore una legge contro quelli che allora erano considerati atti osceni tra maschi; Tom Branson (Allen Leech), il marito della defunta Lady Sybil, terzogenita del conte, metterà da parte il suo patriottismo irlandese per il bene della famiglia, trovandosi coinvolto, suo malgrado, in uno spiacevole e pericoloso malinteso mentre Lady Mary (Michelle Suzanne Dockery), la primogenita, dovrà raccogliere l’eredità della nonna, Lady Violet (Maggie Smith) e diventare il nuovo punto di riferimento di Downton.

Un tema che unisce le varie sottotrame è proprio l’importanza della famiglia, caposaldo di un mondo ben diverso da quello rappresentato nella prima stagione, ambientata nel 1912. Michael Engler ci mostra come cambiano i rapporti personali : sembra che la distanza tra nobili e plebei vada accorciandosi, come dimostra il tono quasi veemente con cui Barrow si rivolge al conte di Grantham (Hugh Bonneville) oppure l’ingenuità del cameriere Molesley (Kevin Doyle), il quale parla alla regina con una disarmante semplicità, interrompendo il pasto e suscitando un incredulo imbarazzo tra i presenti.

I ruoli, per quanto ancora definiti, si adeguano ai tempi e la nobiltà si ritrova a fronteggiare situazioni ben diverse dal passato. La stessa Lady Mary si chiede se non sia il caso di vendere Downton per trasferirsi in una tenuta più modesta, semplice da gestire. Anna Smith (Joanne Froggatt), sua cameriera personale nonché ormai cara amica, rifiuta tale idea sostenendo che Downton e la sua famiglia sono un punto di riferimento insostituibile per la contea. L’unica certezza in un mondo in costante cambiamento è proprio Downton. La serie – in tutte le sue sei stagioni – ha dipinto vari personaggi in movimento tra le pieghe della storia tra il 1912 e il 1927, eppure ciò che non è mai cambiato e resterà immutabile è proprio la presenza della famiglia Crowley – e, a detta del cast, non è da escludere che in futuro Downton Abbey ritorni con un nuovo, avvincente film.