In un futuro neanche troppo lontano, a causa di squilibri naturali dovuti ad inquinamento e sovrappopolazione, la Terra è diventata ormai un luogo non molto ospitale e le classi meno abbienti sono costrette a vivere in cataste: case roulotte ammassate una sopra l’altra in pericolanti strutture verticali. L’attività principale, in questo futuro, è l’immersione in un mondo virtuale, nato come videogioco, e chiamato OASIS; unica via di fuga dalla desolante condizione in cui versa il pianeta. Nel tempo OASIS, creato dal game designer James Halliday (Mark Rylance), è diventato infatti il principale luogo di intrattenimento, ritrovo, educazione e persino di lavoro. Alla sua morte, Halliday lascia una sfida per tutti i partecipanti del gioco: una quest in tre livelli, alla ricerca di tre chiavi, con in palio la sua eredità miliardaria, e il possesso esclusivo della realtà virtuale da lui creata. Wade Watts (Tye Sheridan), un giovane appassionato di videogiochi e cultura pop anni ’80 come James Halliday, decide di prendere parte alla sfida. Come lui, tanti altri videogiocatori accaniti, cosiddetti gunter, ed una multinazionale, IOI, che cerca in ogni modo di vincere la sfida e l’ambitissimo premio.
La trasposizione cinematografica del libro omonimo di Ernest Cline del 2010 parte dallo stesso incipit, per poi dirigersi verso una direzione – ovviamente – più mainstream. Ne risulta una prima parte che è di impatto solo visivo e non di contenuti. Una sorta di videogioco non interattivo che è una girandola di effetti speciali e citazioni, in una caccia (per lo spettatore) al personaggio, al riferimento o al veicolo di un qualche film, serie tv o videogioco anni ’80, che sembra fine a se stessa. Poi però le citazioni alla cultura pop di quegli anni diventano parte integrante e motore della trama, e le varie contaminazioni sono utilizzate in modalità inaspettate, con una seconda prova che è una spettacolare intuizione ed irrefrenabile spasso per gli estimatori del periodo.
Da lì in poi è puro intrattenimento Spielberghiano, dalla forma classica – quasi scolastica -, nello stile dei tanti cult anni ’80/90, con un gruppo di giovani protagonisti minacciati da un antagonista ambizioso e cattivissimo (un Ben Mendelsohn sopra le righe). Delle tante versioni che avrebbero potuto essere di Ready Player One – per la regia erano stati presi in considerazione anche autori come Nolan, Zemeckis e Peter Jackson, – e considerando le potenzialità anche sperimentali nonché di sottotesti dell’opera originale; quella di Spielberg è una Festa, celebrazione di quegli anni di cui lui stesso è stato un deus ex machina. D’altra parte è sempre stata questa la missione di Spielberg: film che mirano a raggiungere il pubblico più vasto possibile, puntando sulla meraviglia e le emozioni più basilari. È solo una delle versioni di Ready Player One che potevano essere, ma questa in particolare, nessuno, se non lui, avrebbe potuto farla. In fondo, si parla pur sempre di Spielberg: avevamo dubbi?