Sulla dolorosa e controversa vicenda della morte di Stefano Cucchi, avvenuta nel 2009 una settimana dopo essere stato arrestato con l’accusa di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, tante sono state le parole, gli scontri, i dibattiti feroci volti a trovare la verità su ciò che è successo. Per la prima volta si passa alle immagini della settima arte, e tocca ad Alessio Cremonini prendere una posizione, seppur velata e indiretta, su uno dei fatti di cronaca più discussi e importanti degli ultimi anni.
Il regista romano, dopo aver convinto la critica con l’esperimento Border nel 2013, affida ad Alessandro Borghi il delicato compito di trasporre sul grande schermo quella discesa negli inferi vissuta sulla pelle. Il risultato, presentato alla 75° Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Orizzonti”, è una performance carica di pathos, fedele ai fatti ma emozionante e struggente, pieno di violenza non fisica, ma soffocata e ringhiata, a denti stretti, contro quella macchina fatta di ostruzionismo, verità nascoste e sentenze inaccettabili. Cremonini non ha alcuna intenzione di ritrarre Cucchi come un martire o un santo condannato per un crimine che non ha mai commesso: Stefano era un ragazzo di trent’anni con un passato da tossicodipendente, assunto come geometra dal padre per permettergli di ripartire e di riprendere in mano la sua vita. Venendo trovato con dodici cubetti di hashish e tre dosi di cocaina, il 15 ottobre viene arrestato dai Carabinieri e trattenuto in caserma. Ed è proprio lì che il silenzio della violenza, accuratamente nascosta ma troppo pesante da digerire, getta Cucchi in un calvario fatto di dolore, buio e opprimenza, dove i lividi e l’emorragia alla vescica diventano protagoniste di un inferno scontato di cella in cella. Borghi offre una delle sue migliori interpretazioni, trasformandosi anche fisicamente per ricoprire un ruolo difficile perché straziante e distruttivo. Anche il cast di contorno, composto da Jasmine Trinca nel ruolo della sorella Ilaria e Max Tortora in quello del padre, è genuino, vero ed emotivamente immerso nella vicenda.
Non c’è retorica spicciola, non c’è vittimismo né pietismo: l’approccio documentaristico di Cremonini espone i fatti per come sono successi, ponendo particolare attenzione sul corpo di Cucchi come simbolo dei crimini che tutti vedono ma che nessuno (o quasi) ha il coraggio di denunciare. Non è un film che lancia accuse, ma che pone tante domande che si accumulano sulle carte di un caso che, a nove anni da quelle assurde percosse, lascia ancora senza parole.