No Fear. È scritto in piccolo sulla maglietta di Stéphane (Jean Michelangeli), studente di Scienze Politiche all’Università di Aix-en-Provence, nazionalista, militante per l’indipendenza della Corsica, in esilio a Parigi ma nato e cresciuto a Bastia. Ha appena saputo che il suo amico d’infanzia Christophe (Henri-Noël Tabary) è stato ucciso in un vergognoso agguato nelle campagne corse. Il corpo crivellato di colpi, l’auto data alle fiamme. La sua decisione è irremovibile e definitiva: andare al funerale dell’amico, contro tutto e contro tutti, anche a costo di morire assassinato per mano di quelle organizzazioni criminali che nel corso degli anni ’90 sono state protagoniste di una spirale di violenza in tutta la Corsica.

È proprio qui che inizia (e finisce) la storia di Una Vita Violenta, secondo lungometraggio del regista corso Thierry de Peretti che, dopo il premiato Apache del 2013, torna a parlare della sua isola natìa per analizzare uno dei capitoli più tragici della sua storia, quella della scissione del Fronte di Liberazione Nazionale, una divisione che porterà a numerose vittime e sanguinosi regolamenti di conti che si protrarranno per più di un decennio. La tragedia si consuma attorno a Stéphane, combattente attivista sposato alla causa corsa, di cui seguiamo ascesa e declino: dall’incarceramento per aver nascosto delle armi in casa all’indottrinamento politico per mano di François (Dominique Colombani), per poi diventare membro di spicco dell’Armata Corsa, seguendo sempre principi rivoluzionari e filo-marxisti.

De Peretti sceglie di raccontare le azioni dell’armata tenendo a debita distanza lo spettatore, utilizzando un approccio prettamente cronistico, che però a lungo andare risulta asettico, crudo, lontano. Troppo lontano per immergersi nella storia, troppo lontano per immedesimarsi nei protagonisti e creare una connessione mai così necessaria, soprattutto quando si parla di giovani che hanno consegnato la loro giovinezza in nome di ideali dietro i quali si nascondeva in realtà l’impeto cieco della rabbia pura. Il regista non cerca di scoprire l’origine di questa rabbia: si ferma ai fatti e alla teoria, ovattando i dubbi morali di una generazione politicamente radicalizzata, interpretata da attori locali (tra cui lo stesso attore protagonista, Jean Michelangeli, al suo esordio sul grande schermo).

Peccato, perché sono veramente pochi i film che parlano della Corsica e dei suoi movimenti nazionalisti. Una Vita Violenta sarebbe potuto essere un ritratto critico e completo dei crimini politici in un’isola troppo spesso bistrattata e abbandonata a se stessa, ma preferisce raccontare nel modo più distante possibile. Rimangono solo l’inspiegabile furia (e la tremenda monodimensionalità) di Stéphane.