Wyoming, 1963. Dick Cheney (Christian Bale) è un perditempo e un alcolista. Incapace di tenersi un lavoro e arrestato per guida in stato d’ebbrezza, decide di ripulire la sua vita, sotto sollecitazione della moglie Lynne (Amy Adams). Dopo qualche anno lo ritroviamo stagista alla Casa Bianca, dove diviene il protetto di Donald Rumsfeld (Steve Carrell), consulente economico di Nixon. Grazie a questa esperienza apprende i trucchi del mestiere e i segreti della politica, doti che gli serviranno durante tutta la sua lunga carriera, sempre vissuta nell’ombra.

Unico momento in cui si espone in prima persona è durante il mandato di Jimmy Carter, durante il quale viene allontanato dalla Casa Bianca e corre come rappresentante del Wyoming. Abbandona anche per un periodo la politica, sotto il governo Clinton, divenendo amministratore delegato di un’importante compagnia. Per il resto, riesce a superare indenne, mantenendo sempre una posizione di rilievo, le amministrazioni Nixon, Ford, Regan e Bush Senior. Prendendo anche parte ad alcuni degli avvenimenti politici più complessi e difficili della storia americana recente, come la Guerra del Golfo.

Ma è sotto l’amministrazione di Bush Junior che avviene il salto di qualità. Intuendo la scarsa attitudine politica del presidente, Cheney riesce ad acquisire sempre più potere, divenendo vicepresidente e assumendosi la responsabilità di molte decisioni importanti per il Paese. Supera indenne alcuni scandali, primo fra tutti il CIA Gate, e diviene l’artefice, fra le altre cose, della guerra in Iraq. Non a caso, la pellicola è raccontata dal punto di vista di un soldato che ha combattuto in quella guerra.

Il film ripercorre anche alcuni scandali della vita privata di Cheney, come il coming out della figlia Mary, mai divenuto un reale ostacolo per la sua carriera politica.

Con questa pellicola, il regista Adam McKay torna ad occuparsi di politica e a narrare, con il suo stile inconfondibile, alcuni dei momenti più duri della storia americana recente. Dopo La grande scommessa (2015), dove raccontava della crisi economica del 2008, gira un film in cui, attraverso le vicende di uno dei più spietati uomini di potere, illustra decenni complessi e delicati, fino a giungere al resoconto della Guerra in Iraq.

Candidato a 8 premi Oscar (di cui solo uno vinto, quello per il riuscitissimo make up), è una pellicola con notevoli risvolti interessanti.

Uno dei punti di forza del film è sicuramente il cast, equilibrato e scelto con estrema cura e attenzione. Tornano alcuni degli attori già presenti nella pellicola precedente, Christian Bale e Steve Carrell, affiancati da Amy Adams e Sam Rockwell.

Nelle mani di McKay Bale si trasforma, si ingrassa e si deforma, dando vita ad una delle performance migliori della sua carriera. Le mille sfumature del carattere del personaggio prendono vita sul suo volto, attraverso minimi movimenti facciali e gesti studiati e calibrati. Un ritratto assolutamente fedele e mai caricaturale di un uomo cinico, spietato e affabulatore, che riusciva però a rimanere sempre nell’ombra, senza esporsi mai in prima persona.

Anche Sam Rockwell e Amy Adams riescono a calarsi perfettamente nei propri ruoli. La Adams, alla sua sesta candidatura all’Oscar, crea un ritratto perfetto di una donna senza scrupoli che sfrutta e spinge il marito verso una carriera a lei preclusa. Mentre Sam Rockwell impersona Bush Junior al meglio, calcando la mano sull’aspetto di finta ingenuità e sprovvedutezza di un uomo che inizialmente non riesce bene a comprendere con chi si sta mettendo in “società”. E la scena in cui Cheney “prende all’amo” Bush, con richieste sempre più esplicite e incalzanti, alternata a sequenze di una vera battuta di pesca, rende in maniera chiara e lampante questo rapporto.

È infatti il montaggio l’altro grande punto di forza del film. McKay si avvale di una tecnica già sperimentata ne La grande scommessa, usando una sorta di versione rinnovata e moderna del montaggio delle attrazioni, spezzando la tensione e la durezza di un argomento così complesso e difficile da seguire con immagini del tutto estranee al contesto.

È una regia arrogante, dura ma precisa e affilata, che buca lo schermo e crea un ritmo incalzante e dinamico. Forse alcuni passaggi della sceneggiatura andavano meglio equilibrati, raccontando più nel dettaglio alcune vicende a tutti note ed eliminando i passaggi troppo tecnici.

Sarcasmo e denuncia tornano ad essere le cifre stilistiche di uno dei registi più interessanti del panorama odierno, che permettono di raccontare quasi con toni da commedia una vicenda biografica e politica in cui c’è ben poco da ridere.