Partire da Buon Giorno (Ohayō), in una ideale retrospettiva Ozu-centrica, significa partire da uno dei lungometraggi più teneri, simpatici e completi della filmografia del grande regista giapponese. Qualcuno potrebbe obiettare che questa scelta sia troppo azzardata, puntando su classici rinomati come l’irrinunciabile Viaggio a Tokyo o scegliendo un cammino cronologico, quindi muto, per poi passare al suono, e infine al colore. In Buon Giorno tutto questo c’è già: ogni angolo del suo cinema è affinato, ogni strato della sua poetica è perfettamente adagiato su una pellicola che non può non ritenersi fondamentale e totale. Inoltre, la restaurazione in 4K curata dall’azienda Shochiku, con cui Ozu Yasujirō ha sempre lavorato per tutta la sua vita, è una delle più attente e ontologicamente valide. Il risultato è un capolavoro di indubbio spessore.

C’è un’importante, anche se non strettissima, correlazione tra Ohayō e un’opera precedente e minore di Ozu, Sono nato, ma… del 1932. In entrambi i film, l’ossatura principale è pressoché identica: uno scontro generazionale tra genitori e figli, affrontato in una prospettiva comica e leggera. Tuttavia non si può parlare di un’evoluzione diretta, né tantomeno di un remake: a cambiare non è solo la trama, ma il regista stesso e tutto il paesaggio nipponico che egli ha vissuto. In Buon Giorno i due bambini protagonisti, Isamu e Minoru (rispettivamente interpretati da Shimazu Masahiko e Shitara Kōji), dopo aver scoperto che i vicini di casa posseggono un nuovissimo televisore con cui guardano gli incontri di sumo, cercano di convincere il padre a comprarne uno. Il genitore, severo e irremovibile, non ha alcuna intenzione di acquistare un congegno che “potrebbe creare una società di idioti”, sicché i due figli decidono di astenersi dal parlare, chiudendosi in un mutismo ribelle che creerà simpatiche incomprensioni all’interno di una piccola comunità suburbana a ovest di Tokyo, in aperta campagna.

Nella pellicola confluiscono numerose sottotrame e siparietti atti a rappresentare la vita quotidiana di un tranquillo sobborgo giapponese degli anni ’50, vissuti da vere e proprie maschere tipiche del cinema del regista di Tokyo: il padre austero ma comprensivo, la madre attenta ai propri pargoli, il giovane scapolo innamorato della zia dei bambini ma che ha troppa paura di dichiararsi, le vicine intente a scambiarsi chiacchiere e gossip più o meno veritieri. La novità di Buon Giorno tuttavia risiede nella lente con cui Ozu guarda il mondo: stavolta l’alter ego del regista (di solito interpretato da uno dei suoi attori-feticcio, Ryū Chishū) lascia la scena ai bambini, che colorano la commedia con gag su flatulenze e accusano i grandi di riempire le giornate con parole vuote, senza significato. Sono i piccoli i veri protagonisti, autentici nella loro ingenuità e allo stesso tempo svegli e intelligenti, pronti a portare sullo schermo una critica sociale in miniatura. Ancora non capiscono che quelle parole senza significato fungono da lubrificante sociale, come dice il loro tutor di inglese Fukui Heiichiro (Sada Keiji), e che senza di esse il mondo non girerebbe. Ma sanno già, nella loro giovane spensieratezza, che bisogna costruire qualcosa sui mattoni di quelle parole, qualcosa che vada oltre la semplice conversazione spicciola. Ed è proprio qui che il messaggio di Ozu trova nuova linfa vitale e si riscopre più forte che mai, anche oggi.

Buon Giorno è il secondo film a colori del maestro Ozu dopo Fiori d’equinozio (Higanbana) del 1958. I personaggi si muovono in un sobborgo dai colori pastello che mostra, dapprima in maniera subdola e via via in modo più evidente, i numerosi cambiamenti in atto all’interno della società giapponese. Il risultato è che lo stile minimalista di Ozu racconta il crollo della figura patriarcale, l’invasione (diretta o meno) di una cultura e un’estetica occidentale ben lontane dai canoni nipponici, con la conseguente presa di coscienza del tempo che scorre inesorabile. Ogni fotogramma è una meraviglia di composizione cromatica, elegante nella sua semplicità, monumentale nella sua quotidianità. Si potrebbe quasi definirlo un esercizio di meditazione introspettiva, complice anche il ritmo calmo e rilassante della pellicola. D’altronde, la conversazione non è solo interna al film: i personaggi parlano diretti alla cinepresa, dialogano con lo spettatore rendendolo parte integrante della commedia, complice dei dispetti dei bambini, chiacchierone assieme alle madri di famiglia, tassello imprescindibile del mosaico di Ohayō.

Una pellicola di indubbia bellezza, che sotto la scorza di un’innocua e deliziosa commedia (quasi una situation comedy all’americana) nasconde una profonda discussione sull’importanza della comunicazione – quella vera – tra individui. E tutto questo passa per l’acquisto di una televisione, simbolo dell’influenza occidentale post-bellica. I tempi cambiano. Ma il cinema di Ozu, per fortuna, resta.