In un futuro prossimo ma non molto lontano, un campo elettrico proveniente dallo spazio profondo minaccia la Terra. La sua origine potrebbe essere una navicella spaziale che ventinove anni prima si era recata su Nettuno per cercare forme di vita intelligente per poi sparire nel nulla. Il suo capitano, l’astronauta Clifford McBride (Tommy Lee Jones), potrebbe però essere ancora vivo. Per mettersi in contatto con lui, viene reclutato suo figlio, il maggiore Roy McBride (Brad Pitt), l’unico, forse, in grado di convincere il padre ad uscire allo scoperto.
In realtà la fantascienza e le ambientazioni spaziali sono solamente un pretesto per raccontare una vicenda del tutto umana e basata su uno dei temi atavici dell’umanità, il rapporto/conflitto padre–figlio. La pellicola di James Gray si colloca quindi nel filone nuovo del genere sci-fi, in cui gli spazi profondi e spesso inesplorati diventano terreno fertile per la nascita di domande sulla nostra specie e sull’enorme gamma di emozioni, rapporti e problematiche di cui ogni essere umano è portatore. In tal senso, basta menzionare film come Interstellar, Gravity, Arrival, The Martian o First Man – Il Primo Uomo, opere che sono state capaci di riscrivere il paradigma di un genere cardine del cinema. E Ad Astra si propone, più o meno inconsciamente, di fare lo stesso.
Roy McBride si è sempre reputato un figlio modello, degno erede di un padre che si era letteralmente sacrificato per la scienza e la sete di sapere. Controllato, privo di empatia e capace di tenere a bada, quasi soffocate, le proprie emozioni, è riuscito a distinguersi e ad eccellere, superando anche la leggenda paterna. Ma nel momento in cui la verità sul genitore viene piano piano a galla, il suo intero universo e le sue maschere crollano.
Brad Pitt riesce a calarsi perfettamente nei panni di quest’uomo, confezionando una delle migliori interpretazioni della sua carriera e sancendo il suo nuovo periodo d’oro al cinema (attualmente è nelle sale anche con C’era una Volta a… Hollywood e probabilmente una delle due prove attoriali lo condurrà agli Oscar.) Il suo volto diviene una delle chiavi di lettura del film e i suoi dubbi ci conducono verso grandi domande a cui spesso è impossibile trovare una risposta univoca: cosa fare quando la verità si rivela essere l’opposto di ciò in cui avevi creduto o se bisogna rimanere fedeli alle proprie origini e al proprio passato accantonando, almeno in parte, il proprio dovere.
Tommy Lee Jones compare in scena pochissime volte ma imprime in noi spettatori un’inquietudine profonda e un senso di sgomento di fronte alla sua lucida follia e alla sua ferma volontà di abbandonare la vita sulla Terra e la sua famiglia pur di portare avanti le sue ricerche. Nel cast, in piccole parti, anche Donald Sutherland, Ruth Negga e Liv Tyler, queste ultime presenti, insieme a Brad Pitt e James Gray, al festival di Venezia per presentare il film in concorso quest’anno.
Gli effetti speciali sono di grande impatto e gli ambienti spaziali sono ricostruiti alla perfezione. L’immensità dello spazio profondo fa perfettamente da sfondo a questa vicenda del tutto umana, e la solitudine del protagonista acuisce e amplifica le sue emozioni, rendendo il suo viaggio interiore ancora più difficile e doloroso. Con sempre più forza prende piede in lui il pensiero di essere più simile a suo padre di quanto avrebbe mai voluto ammettere, e lo scoprire che il padre è ancora vivo lo costringe a fare i conti con il senso di abbandono. Il montaggio è ben calibrato, il tempo è dilatato e scorre lentamente, ma non mancano scene di tensione e colpi di scena. Il ritmo del film è lo stesso del protagonista, le sue scelte, i suoi ricordi e le sue reazioni determinano lo svolgimento della narrazione. L’inizio del film è quasi asettico, proprio come Roy McBride, ma piano piano la pellicola prende vita e corpo e ci conduce attraverso domande ed interrogativi esistenziali.
Ovunque l’uomo vada porta con sé i suoi problemi, le sue angosce e il proprio vissuto. Arrivato sulla Luna, il protagonista la trova trasformata in un surrogato della Terra, con aeroporti e compagnie di linea per compiere viaggi interstellari. Siamo divoratori di mondi è il suo commento e, forse, il senso della pellicola risiede proprio in quella frase: non importa quanto in là ci si spinga, per la razza umana è sempre una questione personale. E lo spazio profondo diviene lo scenario perfetto in cui metabolizzare una verità scomoda e il crollo del proprio punto di riferimento e per interrogarsi e rivedere le proprie scelte di vita.