Siamo arrivati ai giorni della maturità, in tv è già andato in onda Notte prima degli esami e l’omonimo brano di Antonello Venditti è di nuovo in radio. Certe cose non cambiano e non si vogliono cambiare, come fossero parte di una mitologia da rispettare, come le feste comandate. Narrazioni diverse, nello spirito e nelle intenzioni, molto spesso non si vogliono neanche conoscere, ma ci sono alternative che vanno conosciute. Philophobia di Guy Davies è una di queste.
Ambientato tra gli affascinati scenari delle colline del Cotswolds, in Inghilterra, seguiamo le vicende di Kai (Joshua Glenister) e dei suoi amici negli ultimi giorni di scuola superiore con annessi esami finali.
In quei giorni fatidici si concentrano le speranze, le paure, i sogni, i rimpianti di tutta un’adolescenza, con lo sguardo su un futuro che genera ansia e paura. Kai sa che vuole fuggire dalla realtà provinciale, gli è fin troppo stretta per il suo estro che tende all’infinito; vuole diventare uno scrittore, aver successo, nulla lo trattiene – ripete – ma sa di mentire perché la sua musa e amore inconfessato Grace (Kim Spearman) rimarrà lì, consolidando forse il suo legame con il bullo Kenner (Alexander Lincoln).

Quello di Matthew Brawley risulta un soggetto anonimo, visto, rivisto, un teen movie come tanti, ma allora cosa ha portato un film come Philophobia al Torino Underground Cinefest? La risposta è semplice: Philophobia è l’antitesi del teen movie.
Guy Davies lavora profondamente sull’opera in qualità di sceneggiatore, regista e poi produttore, rendendolo a tutti gli effetti un film d’autore. Lo sguardo sull’adolescenza è maturo e sensibile alle tematiche di un coming of age, ma originale come diverse opere recenti si stanno distinguendo in tal ambito (Gwen, Eighth Grade – Terza media, La diseducazione di Cameron Post). L’originalità non mette le sue radici sulla storia in sé ma sulla narrazione degli eventi, una narrazione libera, intervallata da momenti lirici e introspettivi, concentrato su un’espressività intima che parla spesso attraverso la scrittura del giovane Kai. Davies si concentra su personaggi che mai sono stereotipati o inquadrati in caratteristiche già viste e proposte; Philophobia esplora la complessità dell’essere adolescenti e le contraddizioni nei rapporti, nei gesti, nelle parole, nella ricerca di qualcosa che sembra chiaro ma rimane indefinito.
Viaggiamo tra le fantasie di Kai, tra il suo quotidiano, tra i momenti con gli amici a fumare erba o organizzare scherzi; lo vediamo osservare da lontano Grace, interagire in modo impacciato, vivere quello che sempre sognato con lei, ma anche soffrire e aver compassione per la sua vita incasinata. E c’è spazio anche per addentrarci nella rivalità tra Kai e il gradasso Kenner, fatta di tensioni, di invidia ma anche di ammirazione, finché il legame non sembra trasformarsi in una sorta di sindrome di Stoccolma.
La superficialità non è nella formazione di Davies e si vede.

Gli scenari sembrano essere profondamente legati all’intimo di ogni personaggio e delle situazioni, non è qualcosa di esplicito, ma riesce a esser visibile. Notiamo i momenti drammatici e controversi affrontati in spazi piccoli, quasi claustrofobici, chiusi al mondo e riservati a pochi. Nei momenti più inquieti e imprevedibili ci sono spazi brulli, aperti, con poco verde, la stessa natura però diventa lussureggiante quando Kai si abbandona al suo “io” poetico, come se gli alberi fossero i mezzi migliori per dare ampio respiro al protagonista e al suo ego. La natura rigogliosa del Cotswolds non sempre è quieta ma riesce ad essere complice del nostro protagonista, anche quando risulta avversa agli altri esseri umani, come se Guy Davies suggerisse che Kai ha la forza di sopravvivere al mondo, è forte al punto di poter affrontare tutto, essere un vincente e realizzare i suoi sogni.
Eppure Philophobia sulla parte finale riesce a contraddire i suoi messaggi, le sue riflessioni, cercando di stupire in un modo che fa storcere il naso più che lasciare a bocca aperta. Il filtro maturo, le intenzioni tra le più sensibili, confluiscono in una soluzione scadente dove Kai sembra scimmiottare goffamente l’iconico Jim Stark/James Dean, con il risultato di tradurre Philophobia in un’intenzione dove il punto di arrivo – seppur definito – non risulta messo a fuoco. Volendo essere ottimisti, possiamo credere che non si volesse risolvere il percorso del suo protagonista, lasciando respirare l’angoscia adolescenziale fino all’ultimo frame.
Il risultato complessivo è notevole per un primo lungometraggio, anche se Davies non è un neofita e si vede dal suo rapporto con la camera, le inquadrature, la fotografia. Non per niente la sua carriera è per lo più segnata dal lavoro come cameraman e altri ruoli tecnici, conoscenze che offrono un quid in più a Philophobia, la quale è un’opera di qualità nonostante le perplessità finali che può lasciare.