Non è facile descrivere Bill Murray. Attore comico stravagante, imprevedibile, eclettico, simpatico mattacchione. Di lui si è detto di tutto e il contrario di tutto: che ha cantato al karaoke in un bar dopo aver offerto da bere a tutti, che ha partecipato a feste di ogni genere in giro per New York, che è andato a studiare Filosofia all’università per passare il tempo, che ruba le patatine agli sconosciuti. Bill motherfucking Murray è questo ed altro: acchiappafantasmi, attore in declino in Giappone, meteorologo che vive sempre lo stesso giorno. Ma soprattutto, lui è personaggio, dentro e fuori sia dallo schermo che dagli schemi. E quel personaggio è stato insignito del Premio alla Carriera durante l’ultima Festa del Cinema di Roma, durante un incontro moderato dal regista che più di chiunque altro ha collaborato con Murray: Wes Anderson.

L’incontro, atteso da centinaia di cinefili accorsi in massa alla Sala Sinopoli dell’Auditorium, è iniziato con circa quaranta minuti di ritardo, inframezzati da applausi e mormorii. Non un buon inizio, ma sempre meglio di vedersi la conferenza stampa annullata perché Bill Murray era ancora in pigiama, come successo qualche ora prima. Giornalisti furibondi e mattinata saltata. Ma è Bill Murray: in fondo, una cosa del genere da lui uno se la aspetta.

Arrivano sul palco Antonio Monda, per la quarta volta Direttore Artistico della Festa, Anderson e Murray, seguiti dall’intramontabile e bravissima Olga Fernando, vera e propria icona degli interpreti in tempo reale. L’inizio è scoppiettante: il regista racconta un aneddoto inedito legato alle riprese di Rushmore, durante le quali l’attore portò con sé tutto il reparto vendite di un autosalone Jaguar. “Bill sa come rendere il lavoro divertente, ma è quello che accade davanti alla cinepresa che ci porta a lui, ed è ciò di cui parleremo oggi”. Ma è Murray in persona a fermarlo subito, per chiedere al pubblico in quanti abbiano capito perfettamente quello che ha detto. “Siamo americani aggressivi, […] Olga è la nostra traduttrice, ma è pagata a parola e abbiamo sforato il budget”.

A questo punto Anderson chiede se ci sono domande dal pubblico. Una donna si alza e corre verso il palco: è la due volte Premio Oscar Frances McDormand, moglie di Joel Coen (il cui fratello, Ethan, è ospite di #RomaFF14), che loda Bill Murray con un monologo divertente e toccante. “Io c’ero per Bill perché lui c’era per me. Ma lui può farti male. Letteralmente. Una volta mi lanciò e il risultato fu che mi ritrovai con una costola rotta. Seriamente. Alla fine mi ha messo giù, ma non mi ha mai deluso (He eventually put me down. But he has never let me down)”.

La prima clip che viene mostrata è – giustamente – tratta da uno dei film più importanti della sua carriera: Ghostbusters, di Ivan Reitman. Tuttavia, non ci saranno domande su Ghostbusters, né sul regista, né su Harold Ramis e la sua carriera da acchiappafantasmi. L’incontro si concentrerà soprattutto sulle sue esperienze con Wes Anderson: dagli aneddoti legati a Moonrise Kingdom alle sue abilità di dollyman ne Il Treno Per il Darjeeling. Bill dichiara che, oltre ad Anderson, il regista con cui si è trovato meglio è stato Roger Michell, e per un motivo molto particolare: “Ogni giorno finivamo di lavorare alle sei del pomeriggio perché Michell era diventato papà. Eravamo in Inghilterra d’estate, e tramontava molto tardi, quindi ogni sera tornavo in macchina e guardavo il tramonto, e pensavo: beh, tutto sommato non è una brutta vita”.

Dopodiché è il turno di Wes Anderson (ancora), che spiega cos’è che ha imparato da Bill. Si parla di Rushmore, di Meatballs (il primo film in cui Murray ha un ruolo da protagonista), di aperitivi a Firenze, di Sofia Coppola, Jim Jarmusch e naturalmente di Wes Anderson. L’incontro piano piano diventa una retrospettiva sulle opere indipendenti americane a cui ha lavorato Murray e che sono diventate pietre miliari del cinema. C’è solo un piccolo problema: le traduzioni non arrivano. Il regista di Grand Budapest Hotel risponde colpo su colpo, non lascia il tempo a Olga di tradurre, e dagli spalti si levano grida di aiuto per la traduzione. Antonio Monda si rivolge alla Fernando e chiede di “sintetizzare”, che risponde seccata (e ne ha tutto il diritto) “se possibile”. L’incontro diventa lost in translation.

Tra consigli su come sentire la propria presenza fisica prestando attenzione al proprio peso e inviti a sbadigliare in sala (con tanto di sbadiglio sul palco), si arriva al momento della premiazione, un po’ affrettato dallo stesso Monda che tra una clip e l’altra non lascia molto spazio alla discussione (e neanche alla sua traduzione). L’attore viene premiato da Anderson e il pubblico si alza in una indimenticabile standing ovation. Ci sono tutti: cinefili, giornalisti, fotografi, acchiappafantasmi. Tutti quanti riuniti per celebrare un artista della risata (e non solo): Bill Murray, interpretato con successo da Bill Murray. Ed è quest’ultimo a chiudere la serata con una raccomandazione: “amare Roma e prendersene cura, perché vivete in una città resa magnifica da chi c’è stato prima di voi, e io mi sento come Roma: il grosso del lavoro è stato fatto dalla mia famiglia e dai miei fratelli e sorelle, che mi hanno reso quello che sono”. Forse l’unica dichiarazione totalmente sincera di Murray.