Tutti ci aggrappiamo a qualcosa per poter sopravvivere. Nel caso di Theo Decker, protagonista della pellicola Il Cardellino (tratta dall’omonimo romanzo di Donna Tartt, vincitrice del premio Pullitzer per la narrativa del 2014) si tratta di un quadro, che ritrae l’uccellino che dà il nome al film.

Il  ragazzino (Oakes Fegley\ Ansel Elgort), all’età di tredici anni, perde la madre a causa dell’esplosione di una bomba al Metropolitan Musem. E nel momento in cui il tragico incidente avviene, Theo stava contemplando proprio Il Cardellino di Carel Fabritius, pittore fiammingo della seconda metà del ‘600. Da quel preciso istante, il dipinto diviene dapprima un’ancora di salvezza, da rubare e poi da custodire e proteggere, e successivamente una vera e propria ossessione, punto fermo nel caos in cui piomberà la vita del ragazzo.

Da qui in poi, qualsiasi altro riferimento alla trama sarebbe al tempo stesso rivelatore e superfluo. La pellicola procede raccontando momenti quotidiani, sballi adolescenziali, sentimenti ed emozioni, collegati da una trama esile e al tempo stesso potente, in cui gli avvenimenti e gli intrecci servono unicamente a veicolare il messaggio del libro prima e del film poi, ovvero il valore salvifico dell’arte.

Theo condurrà per tutta l’adolescenza e parte della giovinezza un’esistenza autodistruttiva, in cui l’amore per il quadro e per i mobili antichi lo terrà saldamente legato alla vita. È in un polveroso e cadente negozio di antiquariato, infatti, che troverà protezione e rifugio, divenendo l’assistente del proprietario (Jeffrey Wright), il quale gli insegnerà tutti i trucchi del restauro di vecchi oggetti. Il dolore del giovane protagonista diviene a tratti tangibile: il soggetto iniziale è ricco di dettagli anche sensoriali che scandiscono gli avvenimenti e che rendono fondamentali le reazioni di Theo a ciò che gli è accaduto.

Ma il film non è soltanto la narrazione di un lutto e della sua elaborazione: il modo di raccontare la storia, così come la storia stessa, è intenso e stratificato e nulla è mai dato per certo. All’interno della sceneggiatura si mescolano generi e stili, si passa dal romanzo di formazione al thriller, inglobati all’interno del registro drammatico della vicenda, il cui fulcro rimarrà sempre il modo in cui ognuno di noi reagisce ad una perdita.

Il regista John Crowley affida la potenza di questa storia ad un cast formato da volti più o meno noti di Hollywood: Nicole Kidman, Ansel Elgort (protagonista del teen – drama Colpa delle stelle e della saga Divergent), Jeffrey Wright, Luke Wilson (visto di recente anche nel sequel di Benvenuti a Zombieland), Sarah Paulson (star della serie cult American Horror Story), Finn Wolfhard (Mike di Stranger Things). Ogni attore si cala perfettamente nel proprio ruolo e i rapporti che si vengono a creare fra i protagonisti sembrano autentici e reali. I conflitti, gli amori, il sostegno delle persone vicine sono, infatti, un altro tema portante: la pellicola sembra voler suggerire che ciò che siamo, e diventiamo, dipende indissolubilmente dalle persone che incontriamo nel nostro cammino.

Il montaggio, a volte serrato, altre un po’ troppo lento (la pellicola dura poco più di due ore e mezza), è uno degli elementi che consentono al regista di far entrare lo spettatore all’interno della narrazione. Le scene spesso non si susseguono in ordine cronologico, ma attraverso flashback e flashforward, che acuiscono il senso di mistero della vicenda che ruota intorno al giorno del tragico incidente al Met. Ma la pellicola utilizza anche altri espedienti per calare il pubblico all’interno del racconto, in particolare la fotografia, che ricostruisce in maniera minuziosa ogni dettaglio dei numerosi oggetti e personaggi (non a caso affidata a Roger Deakins, candidato tredici volte al premio Oscar) e la colonna sonora.

Il film, proprio come il quadro da cui prende il nome, riesce quindi a rinnovarsi e a sopravvivere inquadratura dopo inquadratura, divenendo qualcos’altro e restando sempre fedele a sé stesso. E Theo, rimasto ancorato ad un dipinto, o meglio, all’idea di un dipinto, per gran parte della sua esistenza, riuscirà finalmente a comprendere che ciò che gli è accaduto fa parte di un disegno più grande chiamato vita, nella quale non c’è più spazio per rincorrere l’innocenza perduta, simboleggiata da quel cardellino incatenato.